Oh my God! Una Parolaccia in cabina - Brenda
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Oh my God! Una Parolaccia in cabina

Oct 15 2019

Oh my God! Una Parolaccia in cabina

Una delle condizioni che creano maggiore stress a un interprete è quella in cui si trova quando deve tradurre in simultanea le parolacce o le espressioni volgari pronunciate da uno o più oratori.

Parlando di questo aspetto con alcuni colleghi, emerge già la prima difficoltà, ovvero la tendenza ad attenuare la carica emotiva del termine offensivo nella lingua di arrivo optando per un’espressione o una parola considerata “socialmente” o “politicamente” più corretta o educata.

Lo ammetto: sono la prima ad avere la tentazione di farlo, molto probabilmente perché a scuola prima e all’università dopo mi hanno insegnato e abituato a trovare e utilizzare il termine più elegante e formale per esprimere un concetto.

Si tratta senza dubbio di una buona abitudine, ma quando si lavora e si traducono gli interventi di persone più disparate e diverse fra loro per istruzione, esperienze lavorative, personali, emozioni e registri linguistici, credo sia fondamentale domandarsi quanto segue: chi è l’interprete per decidere di censurare o “ammortizzare” un termine che è stato volutamente pronunciato dal relatore per sortire un determinato effetto?

Mi vengono in mente due esempi, uno tratto dalla televisione e il secondo da una mia esperienza lavorativa.

Nel primo caso, l’attore Mickey Rourke è ospite di una trasmissione condotta da Paolo Bonolis in cui racconta la sua vita e le scelte che lo hanno portato a essere la persona che è oggi.

Parlando della sua personalità, afferma: “Because of the way I grew up, I don’t kiss no man’s ass” tradotto dalla collega interprete come “Non mi piego, non scendo a compromessi con nessuno”. Il concetto è stato reso in italiano e il messaggio è arrivato al pubblico, anche se con una carica emotiva ben diversa, tanto che Paolo Bonolis si permette di aggiungere: “l’espressione americana era più ruvida e forse dava più significato: non bacio il culo di nessun uomo.” (Vedi https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/music/e-ora-9-settimane-e-mezzo_F307878904002C10, dal min 3:00)

Potremmo aprire una discussione parallela sulla necessità o meno da parte di Paolo Bonolis di intervenire e di “correggere” l’interprete, ma non è questo il punto; le emozioni si esprimono anche attraverso le parole e noi interpreti siamo tenuti a prestare la nostra voce e a rimanere fedeli al discorso di partenza anche quando le parole scelte da chi parla non sono quelle che avremmo utilizzato noi.

Detto questo, il mio non vuole essere un atto di accusa nei confronti della collega che non poteva prevedere una situazione simile e quasi sicuramente, nei decimi di secondo a disposizione che si hanno per scegliere cosa dire nella lingua di arrivo, avrei optato io per prima per un’espressione più soft e neutra.

Il secondo esempio che intendo riportare riguarda invece la presentazione di un giovane professore irlandese che, in una delle sue slide, aveva citato le parole della moglie nello scoprire che il marito avrebbe devoluto una parte del suo fondo pensione a una ONLUS: “When my wife discovered that, she told me to fuck me off”.

A differenza del primo esempio, io e la mia collega abbiamo avuto la possibilità di prevedere quello che sarebbe stato detto; è vero che non tutto quello che viene scritto sulle slide viene letto dagli oratori, ma trattandosi di un termine offensivo ci siamo poste il problema di come rendere l’espressione in questione.

Come anticipato sopra, la prima domanda che ci siamo fatte è stata: dobbiamo per forza utilizzare l’equivalente italiano della parolaccia? Certo che sì, e di comune accordo abbiamo deciso di optare per l’espressione che in italiano si avvicinasse il più possibile a “fuck off”.

Durante la sua esposizione il professore irlandese ha letto la frase incriminata e in quel momento la mia collega, a cui spettava il turno di tradurlo in simultanea, ha mantenuto lo stesso registro e pronunciato l’espressione “Vaffanculo” per “fuck off”.

Subito dopo averla detta, Il professore irlandese ha chiesto al pubblico italiano se la parolaccia inglese fosse stata resa anche in italiano e si è mostrato molto soddisfatto della risposta positiva.

A fine lavori, ci ha raggiunto in cabina e ci ha ringraziato in modo particolare per non aver evitato di tradurre in italiano l’espressione volgare che aveva pronunciato.

Mi rendo conto che in qualità di interprete è molto strano utilizzare una parolaccia durante una traduzione simultanea, ma se ci pensiamo bene non siamo noi che abbiamo ideato il discorso in lingua originale e non spetta a noi applicarvi un filtro.

Questa riflessione mi porta a sottolineare l’importanza di non trascurare il linguaggio meno accademico e magari più colloquiale, perché nel nostro mestiere non si può davvero mai sapere cosa verrà fuori.

Adesso la parola ai colleghi interpreti e a chi ha ascoltato almeno una volta nella vita una traduzione in simultanea: cosa ne pensate dell’argomento di questo articolo e quali sono le vostre esperienze in merito?

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